SE IL DISSENSO DIVENTA FOLLIA

E’ dall’inizio della pandemia che si usano categorie “psichiatriche” per etichettare ogni dissenso verso la gestione dell’emergenza sanitaria. Il primo, illustre, a farne le spese è stato il filosofo Giorgio Agamben, accusato ripetutamente di “delirare” (vedi questo post specifico).
Il crescendo di equiparazione tra dissenso e follia ha raggiunto ora il suo apice. Solo due esempi, tra i tanti.

Il matematico Piergiorgio Odifreddi definisce i dissenzienti “no-brain”, “minus habentes” (oltre che, con linguaggio militaresco-fascistoide “smidollati”): “hanno un problema psichico di accettazione della realtà” (Novax, bamboccioni senza cervello, “La Stampa”, 24 luglio 2021). Odifreddi, cacciato a suo tempo da “Repubblica” e spesso violentemente contestato dai commentatori “mainstream”, viene così riabilitato e collocato in prima pagina.

Da parte sua Liliana Segre, forte dell’intoccabilità che si è abilmente conquistata di recente, usa il termine “follia” per stigmatizzare chiunque osi accostare il nazismo alle misure governative che discriminano i cittadini in “vaccinati” e “non vaccinati”. Ma l’elenco sarebbe numeroso, fino a scendere nel punto più basso, il sito “Dagospia” (del quale ci occuperemo presto) dove ricorre l’espressione “i novax delirano”, si definiscono i manifestanti “sciroccati” e “svalvolati”, fino alla ricorrente liquidazione delle tesi del giurista Ugo Mattei come “delirio complottaro”.

Quando si affronta il dissenso riducendolo a malattia mentale si è varcata una soglia. Si entra in una nuova società autoritaria che non tollera dubbi, critiche, proteste. Spesso questo stile viene dagli stessi ambienti culturali e politici che in passato si sono stracciati le vesti perché in Unione sovietica si consideravano “folli” i dissenzienti. Il dialogo è finito, non c’è possibilità di confronto con chi considera l’interlocutore un malato di mente. E’ la visione stessa della realtà che non è più condivisa.