1992 – 2020: AMERICA IN FIAMME / 2

Seconda e ultima parte di un’analisi delle rivolte in America nel 1992  (da Fabio Giovannini, Chi ha ucciso la metropoli?, Strategia della lumaca, Roma 1995).

La rabbia e il desiderio (di merci)

Le motivazioni delle rivolte avvenute in America nel 1992 possono essere sintetizzate in due punti: le condizioni economicamente disagiate di ampie fasce di popolazione metropolitana, e il risorgere di un razzismo non più mascherato, incarnato tanto dall’allora presidente George Bush che da altri dirigenti politici che introducevano tematiche apertamente razziste nella campagna elettorale.

Los Angeles, 1992

C’era rabbia ma anche la capacità di far seguire alla rabbia (una forma di “passione” estremizzata e sconvolgente) le rivendicazioni. Queste rivendicazioni erano innanzitutto il bisogno di “giustizia”, e in concomitanza la richiesta di una redistribuzione della ricchezza. Ma lo stile nuovo delle proteste non demandava ai risultati futuri l’accoglimento di queste domande: si praticava da subito un comportamento “altro”.

Gli espropri dei negozi consentivano agli esclusi di appropriarsi fosse pure per un solo giorno e per una sola volta delle bellezze sfavillanti (e ingannevoli) del consumismo. Queste appropriazioni di beni assumevano l’aspetto di vere e proprie feste di strada, e sono state il volto suo modo nonviolento e persino ludico di quelle giornate. Intere famiglie si recavano al di là delle vetrine infrante e uscivano con le braccia cariche di merci, e il sorriso sulle labbra.

Un poliziotto prende la mira in un negozio saccheggiato di Los Angeles, 30 aprile 1992

Il fatto che accanto al genuino e primitivo desiderio di merci si esprimesse una protesta su “contenuti” politici è di per sè significativo. E’ d’altra parte difficile rimproverare eccessi e pretendere un’alta qualità delle rivendicazioni politiche se il contesto in cui si sono svolte le proteste di Los Angeles è quello descritto sinteticamente da Andrew Kopkind: “I numerosi disastri dell’America postmoderna si combinano nel disordinato bacino desertico che ospita questa metropoli in modo da produrre una reazione esplosiva. Le divisioni razziali si fanno sempre più profonde, il crimine e la repressione della polizia si impennano in una spirale a doppia elica, il sentimento anti-immigrazione è diffuso, la segregazione è estesa e sempre più forte, l’economia è stata deindustrializzata e globalizzata, la recessione dilaga, irrimediabile la povertà, endemica la disoccupazione, crolla il valore della proprietà, degradata la situazione ambientale e, dovunque, il tessuto è logoro e lacero. Soprattutto, ovunque ci si rivolga, il potere è assente, di destra o di sinistra, di tradizione bianca o non” (Andrew Kopkind, L’America di domani nel presente assediato di L.A., in Aa.Vv., Los Angeles No Justice No Peace, Manifestolibri, Roma 1992, p.45).

In uno scenario del genere diventano comprensibili tutti gli errori, le brutalità, le insopportabili violenze avvenute durante i tre giorni di fine aprile. Le sponde politiche “ufficiali” per un multiforme movimento come quello che si è espresso tra il 29 aprile e il 2 maggo 1992, erano davvero poche, e anche il futuro presidente degli Usa Bill Clinton, allora impegnato nella sua campagna elettorale, approvò il coprifuoco e le misure repressive decise da Bush e dal suo staff.

Le proteste hanno avuto nei vertici politici democratici e repubblicani un immediato antagonista, e non certo un soggetto disposto ad ascoltare e a capire. Le risposte dell’autorità statale sono state improntate al metodo di risoluzione dei conflitti prescelto dai gruppi dirigenti americani anche sul piano internazionale: l’uso della forza e in particolare dell’esercito

Militarizzare la città per cancellare i conflitti

Già negli anni Ottanta si era coniato il termine “vietnamizzazione” per descrivere la trasformazione di Los Angeles in città militarizzata: nel 1992 il riferimento è stato alla nuova “guerra giusta”, quella contro l’Irak. “Questa è un’altra operazione come quelle dell’anno scorso – ha commentato il sergente Michael O’Brien, di guardia con un M-16 davanti alla corte di giustizia di Los Angeles, parlando con un giornalista del “New York Times” – solo che questa volta non hanno gli Scuds” (citato in Lucio Manisco, Cronache di una guerra nella città degli angeli, in “Avvenimenti”, 13 maggio 1992).

Erano quindi percepibili epidermicamente le analogie tra l’intervento in Irak e la repressione delle rivolte sul territorio interno degli Stati Uniti. Per una metropoli-deserto andava bene il parallelo con l’operazione Desert Storm. Tra l’altro le azioni repressive di esercito e polizia non sono state locali, cioè gestite dai singoli stati interessati dalle rivolte, ma su scala federale. Sono stati 4.000 i soldati inviati da George Bush per sedare le sommosse, ed è significativo che la risposta statale sia perfettamente imitativa del comportamento poliziesco all’origine delle rivolte: c’è diretta continuità tra le manganellate dei cinque poliziotti contro King e l’invio di truppe armate contro i manifestanti.

La Guardia Nazionale presidia un supermercato, Los Angeles, primo maggio 1992

Del resto era tutt’altro che episodico il comportamento degli agenti coinvolti nel pestaggio di Rodney King: che si tratti di un comportamento radicato e addirittura legittimato culturalmente è testimoniato non solo dal ripetersi di eventi simili (già nel novembre 1992 un nero veniva ucciso a botte da agenti di polizia), ma è dimostrato proprio da uno dei poliziotti che parteciparono al pestaggio di King, Stacey Koon, nel suo libro di memorie dal titolo Le idi di marzo in cui rivendica le prodezze e le bastonate contro i “negri scemi” (Cfr. P. P., “Così massacravo la Los Angeles nera”, in “La stampa”, 18 maggio 1992).

Gli episodi americani del 1992 confermano, inoltre, il ruolo decisivo dei mass media nella politica di fine secolo.

L’abilità manipolatoria dei media sta proprio nel far vedere solo ciò che serve a una certa spiegazione della realtà, e a cancellare quanto trasgredisce. Per questo motivo i telespettatori statunitensi (ma a causa degli oligopoli mondiali dell’informazione si potrebbe dire i telespettatori di tutto il mondo) hanno visto solo alcune violenze, quelle dei rivoltosi.

Il video del tentato linciaggio di un camionista bianco da parte di un gruppo di neri è stato diffuso in modo martellante per affrettare la conclusione della rivolta e criminalizzare definitivamente i resistenti. Nessuna immagine viceversa è stata offerta dai grandi network sulle morti dei manifestanti, vittime degli scontri con la polizia o con cittadini giustizieri.

Los Angeles, 1992

Ormai esisteva solo ciò che venva fatto vedere dalle televisioni o di cui parlava la stampa: ciò che non circolava su questi media perdeva anche di esistenza propria, spariva. La violenza, quindi, era solo quella dei manifestanti, non importa se la maggior parte dei caduti è stata tra loro.

Forse l’importanza delle proteste del 1992 è legata proprio all’effetto sui mass media. Le telecamere hanno dovuto forzatamente inquadrare le gangs, in quanto protagoniste anche spettacolari degli eventi di cui dare notizia. Per la prima volta i media sono stati costretti a mostrare comunque la presenza nelle metropoli di forze antagoniste ben attive nonostante l’omologazione diffusa.