1992 – 2020: AMERICA IN FIAMME

In questi giorni l’America è scossa da rivolte e manifestazioni in seguito alla morte durante un arresto di George Floyd, a Minneapolis, ripresa in video e diventata virale. Quasi trent’anni fa si era verificata una situazione molto simile, che merita una nuova riflessione e può spiegare anche quanto avviene oggi. A questo fine ripubblichiamo un capitolo dal libro di Fabio Giovannini Chi ha ucciso la metropoli? (Strategia della lumaca, Roma 1995) che riebalorava un saggio del 1992 dello stesso autore apparso su “Democrazia e diritto”. Per la lunghezza del testo, separiamo il capitolo in due post. Ecco il primo.

Los Angeles: la metropoli insorge

1992, Los Angeles.

Come è noto, le rivolte americane della primavera 1992 hanno fatto seguito al verdetto di non colpevolezza per i cinque poliziotti accusati del pestaggio del nero Rodney King, nonostante una ripresa video dimostrasse chiaramente l’abuso.

La sentenza sul caso Rodney King spezzava la residua fiducia nella giustizia statunitense, incapace di punire le violenze più palesi contro settori deboli e marginali, o etnicamente caratterizzati. Poiché l’evento iniziale era un atto di violenza (il pestaggio brutale di un nero da parte della polizia), la risposta di massa è stata in molti casi violenta.

Un’immagine del video amatoriale che riprende
il pestaggio di Rodney King

Da Los Angeles a San Francisco, fino alla costa orientale, le strade sono state invase da cortei, le città hanno bruciato, i negozi sono stati saccheggiati, i tumulti hanno sconvolto la vita quotidiana. Ciò che è avvenuto tra il 29 aprile e il 2 maggio 1992 ha assunto i caratteri di una vera e propria insurrezione. Non è stato un fenomeno totalmente nuovo per gli Usa, se si pensa almeno ai moti del 1965 a Watts e alle insurrezioni del 1967-68. Ma le caratteristiche di questa rivolta sono state particolari e interessanti.

Innanzitutto l’estensione delle città coinvolte da tumulti (“riot”). In secondo luogo l’individuazione da parte dei manifestanti di precisi obiettivi politici: la richiesta di giustizia “uguale per tutti”, il desiderio di appropriazione dei beni di consumo negati dalla crisi economica alle fasce deboli della popolazione, l’avversione per le discriminazioni razziali. Inoltre non si è trattato di uno scontro tra due gruppi etnici, per quanto compositi (i neri e i bianchi, per semplificare). E’ stata invece una insurrezione multirazziale, e in cui il problema razziale non era nemmeno il principale o il prevalente: la ribellione popolare dimostrava soprattutto una motivazione sociale e politica alle sue origini.

1992, Los Angeles.
Due coreani difendono con i fucili il loro negozio

Chi si è mosso in quei giorni sono stati tanto gli afroamericani che gli ispanici, compresi i messicani o i salvadoregni. Né gli avversari delle rivolte erano genericamente “i bianchi”, ma anzi in alcune occasioni l’antagonista era rappresentato dai coreani, gruppo a suo modo privilegiato impiantato in particolare nel commercio, e che non ha esitato a difendere i propri negozi a raffiche di mitra Uzi. Gli scontri avevano quindi un carattere sociale e inter-razziale, non solo di conflitto tra bianchi e neri. I protagonisti erano gli abitanti delle baracche e delle case fatiscenti a fianco dei veri e propri senza casa (homeless), i disoccupati accanto a chi sta per perdere il lavoro o gravita nei piccoli mestieri saltuari e supersfruttati.

Le comunità annidate nella metropoli

1992, Los Angeles. Saccheggio di un supermercato

Su queste radici sociali si è innestato il problema antico e mai superato delle minoranze, in particolare etniche e nazionali. Minoranze discriminate dall’economia e dal sistema sociale, ma spesso in conflitto tra loro per gli abissi che talora separano i diversi gruppi in termini di condizioni di vita.

Le proteste sono state vissute come spontanee, ma in realtà nonostante l’immediata risposta violenta delle autorità e dei gruppi sociali ed etnici insidiati dai manifestanti, le sommosse si sono propagate e hanno avuto la durata di tre giorni e tre notti.

Chi ha consentito la tenuta e l’estensione delle rivolte sono soprattutto le bande di colore, le gangs. E’ in questi gruppi che va rintracciato il punto maggiore di consapevolezza tra i protagonisti delle rivolte, e anche il maggior grado di equilibrio tra passione e politica. Queste bande hanno proprie culture, una propria base sociale, sono radicate nelle comunità ghettizzate e nel loro disagio.

Sarebbe sbagliato ridurre queste bande ad “associazioni per delinquere”. Spesso c’è un legame e un debito verso le passate esperienze di estrema politicizzazione (le Black Panthers) e non può essere sottovalutato il collante islamico di molte proteste, che ha contribuito a definire le insurrezioni americanedel 1992 come una “intifada nera” (Cfr. Mike Davis, Los Angeles, il rogo delle illusioni, in Cronache dal centro dell’impero, “Marx 101” n.9-10, settembre 1992. Di Mike Davis vedi anche Agonia di Los Angeles, Datanews, Roma 1994).

Accanto alle distruzioni e al teppismo senza alibi ideologiche sono riapparse letture estremamente politiche del conflitto in corso. Negli slogan gridati durante i cortei e nelle scritte murali sono comparsi diretti appelli alla “rivoluzione” (Unica soluzione, la rivoluzione). Le rivolte hanno avuto in alcuni momenti i caratteri di una vera e propria lotta armata tra classi.

Ovviamente sarebbe ingenuo interpretare come cosciente e matura la globalità della protesta americana. Eppure altrettanto ingenuo e superficiale sarebbe nascondere ciò che era presente oltre gli incendi e gli espropri. C’era, insomma, una alta dose di passione e un’alta dose di politica.

Quando si scende in strada e si rischia la vita per affermare le proprie idee e le proprie esigenze deve esserci una motivazione profonda: e gli oltre cinquanta morti delle tre giornate americane del 1992 sono stati soprattutto tra i manifestanti, ispanici e di colore. [CONTINUA}